La visione di Stephen Constantine

from-delhi-to-the-den

Quando pensiamo ad allenatori britannici, prendiamo ad esempio quelli inglesi, li collochiamo sempre in un ambiente d’oltremanica. Lo stesso discorso vale con i calciatori, di cui facciamo fatica ad immaginare che compiano gesta eroiche lontani da quella zona collocata sopra il corso d’acqua che la separa dalla Francia. E’ innegabile che quando qualcuno esce dalla zona, pensiamo ad un David Moyes nel campionato spagnolo, viene visto quasi come un viaggiatore da neo colonialismo. Suona e viene percepito in modo atipico, come se tali allenatori o calciatori stessero facendo un qualcosa di sbagliato o di inspiegabile. Ormai il massimo campionato inglese viene visto come un punto di arrivo e non un punto di partenza, quindi il britannico che lascia l’oltremanica lo percepiamo come un pesce fuor d’acqua.
Anche se non prettamente inglese, Stephen Constantine è stato, è e sarà l’esatto opposto di questo personaggio che ci siamo creati nella nostra mente. Il fatto che non sia puramente inglese, avendo una metà cipriota, e che non abbia avuto un’infanzia regolare nel suolo inglese, saltando da una parte all’altra delle nazioni interessate, ci permette di non parlare di lui come il classico allenatore inglese. Nonostante ciò, anche lui vede il tutto con gli stessi occhi nostri: allenare in Inghilterra è un sogno, un traguardo, un must, anche in leghe molto basse, alle porte della non league.

“I started applying for English jobs after I got my FA full badge in 1996. By the time I left Nepal, I was ralentless. If I read that a manager had left a Football League club, that was it: I faxed or emailed my CV. I must have applied to half the full time teams in England”

Nel suo libro autobiografico, “From Delhi to the Den”, il nativo londinese ci delizia con un’infinità di aneddoti riguardanti la sua carriera da allenatore, quasi sempre passata in paesi in cui il calcio è un continuo cantiere aperto. Due sono i concetti che continua a ripetere: la poca professionalità calcistica nelle nazionali in cui va ad allenare, nonostante lo seguano in tutto e per tutto, e la voglia di essere qualcuno nella nazione che gli ha dato i natali.
La vita di Stephen Constantine, permettendomi, oltre al fatto di essere piena di colpi di scena e di ventate transcontinentali, sembra essere ricamata intorno ad un enorme buco. Immaginatevi una maglia invernale, creata da una vostra nonna, e nel centro un enorme buco. Tale buco, per S.C., è il fatto di non essere stato nessuno, e probabilmente mai lo sarà, in Inghilterra. Quando parla del suo periodo al Millwall, dove era una specie di assistente, si percepisce tanto rammarico. Quando parla della mentalità dirigenziale britannica, si percepisce altrettanto rammarico.

“In 2006, McClaren left Middlesbrough to become England manager. Boro were a Premier League team and could have picked from 99.9 % of managers around the world. Instead they chose their captain, Gareth Southgate. He didn’t even have the Pro License, which broke the league’s own rules. When you’ve spent years doing those courses that’s a kick in the teeth”

La ragione sembra essere dalla sua parte, dopotutto quante ne abbiamo viste di queste vicende? Il fatto è che, analizzando la carriera di tale allenatore, viene da farsi un paio di domande: è tutta colpa della federazione inglese o no? E’ veramente valido come allenatore? Si ritrova sempre ad allenare in luoghi sperduti perché la sua visione di se stesso è forse un po’ troppo pompata? La sua non esperienza da calciatore influenza così tanto quella da allenatore?
Noi vogliamo stare dalla sua parte, vederlo come un paladino del calcio in zone remote del mondo. Vogliamo continuare ad immaginarlo docente in Sudan, per dire, o capo allenatore di qualche squadra dimentica nella terra cipriota che l’ha allevato ed accudito.

(Foto tratta da: worldfootballindex.com)