Un valore agli antipodi in quel di Hillsborough

Con estrema onestà, è simpatico il fatto che la prima partita della nuova stagione della Championship veda scontrarsi due squadre così agli antipodi. Basandoci sui soli valori riportati da transfermarkt, il Southampton risulta essere la squadra con il maggior valore della rosa mentre lo Sheffield Wednesday la penultima davanti al solo Plymouth: 351,70 milioni per la prima; 14,10 per la seconda. Certo, vengono da due contesti completamente differenti: la prima è scesa dalla Premier League dopo più di dieci anni, mentre la seconda è salita dalla League One tramite la post-season. Giusto contestualizzare, capire i motivi, comunque strappa un sorriso che la prima partita a calendario denoti una differenza così marcata. Come se non bastasse, è presente una sostanziale differenza anche nella composizione della rosa: lo Sheffield è la squadra con l’età media più alta del campionato, si toccano i 27,5 anni, mentre il Southampton è la quinta più giovane, con poco più di 24 anni.

Hillsborough è uno stadio che suscita sempre contrastanti emozioni, proprio per via della sua storia e della squadra in cui ci gioca. Contrastanti come le emozioni che si sono provate durante il match, dove sul terreno di gioco si sono praticamente scontrate due epoche diverse di concezione del gioco: degli ospiti che fanno del possesso palla e del tentativo di qualità un vanto, contro un posizionamento e gioco prevalentemente lungo dei padroni di casa. Il classico concetto che regna in tutte le latitudini: “Se non abbiamo gli uomini per fare determinate cose, cerchiamo di stare compatti dietro e coprire i pertugi”. Il problema è che di pertugi se ne sono aperti tanti, bastavano due semplici triangolazioni per mandare i Saints in superiorità numerica. Già dopo dieci minuti la differenza era impietosa, il fine sembrava di quelli peggiori e contro un equilibrio sportivo. Così non è stato ma più per demeriti di quelli del sud inglese, poiché pur con un netto dominio non hanno mai offerto la sensazione di essere una di quelle squadre in grado di mettere le mani sul match, controllarlo a loro piacimento. Russell Martin è nuovo sulla panchina, deve imprimere il proprio stampo e farsi seguire con diligenza dai giocatori, ma l’impressione è di una squadra fumosa, poco propensa a distruggere la gara e l’avversario. Magari dalla prossima giornata inizierà a segnarne quattro di media e concedere due occasioni offensive agli avversari, ma come prima uscita queste sono state le vibes, le sensazioni donate.

Per quanto riguarda gli Owls, madre santa, la situazione è a dir poco problematica. Callum Peterson credo rappresenti alla perfezione lo stato attuale della squadra: capelli senza senso, apparente stress, nervosismo, quasi rassegnazione ad essere spesso arrabbiato. Spesso saltato e bullizzato dal giovane Ezodie, ha avuto la fortuna che il ragazzo è molto evanescente ed ancora privo del killer instinct. L’allenatore Xisco ha detto che la prestazione della sua squadra è stata perfetta, non poteva chiedere di meglio, ma alla fine dei conti cosa avrebbe dovuto dire? Con onestà ha pure detto che conosce i giocatori da sole cinque settimane e che, ora come ora, non hanno le capacità di giocare con la palla, avere il controllo sulla gara specialmente contro una squadra come il Southampton. Certo, il dato del possesso palla, per quanto può contare, è stato impietoso: nemmeno il 30% per i padroni di casa. Lo Sheffield ha giocato 236 palloni, di cui 55 sono risultati lanci lunghi: quasi il 25%, contando che la precisione dei passaggi è stata poco superiore al 70%. Per chiudere, giusto per far capire che in Championship è sempre dura portare a casa le partite anche se si è nettamente superiori, gli Owls hanno giocato nella zona offensiva con un misero 40% di passaggi effettuati positivamente e sono comunque riusciti a portare i Saints a fare la rete della vittoria al minuto 87.

Alla ricerca di un’identità per i Tangerines

Qua è presente la voglia di scrivere due righe sull’ennesima notizia riguardante il Blackpool. La società in riva al mare è incappata in un’altra retrocessione, la quarta da quel lontano 2011 in cui lasciò la Premier League, dopo aver trascorso nemmeno due anni nel campionato che sembra più congeniale alla sua esistenza: la Championship. Dire che è una squadra da League One potrebbe risultare offensivo, poiché da ben più di quindici anni è in grado di essere più di quello che la propria storia dice che dovrebbe essere. In mezzo a mille turbolenze, la famiglia Oyston è stata in grado di aprire intere voragini sull’asfalto, sembra sempre essere in grado di sopravvivere. Una verità quasi inspiegabile, tenuti in piedi nel periodo di passaggio di proprietà anche dalle reti di Armand Gnanduillet, ora al Le Mans in qualche lega minore francese.

Ricordo di quando capitai per la prima volta in quel di Manchester e visitai il museo nazionale riguardante tale sport, una volta presente a Preston ma ora nella seconda città più blasonata d’Inghilterra. Volendolo visionare dal basso verso l’alto, cosa consigliata anche dalla stessa struttura, una volta arrivato all’ultimo piano c’era una stanza adibita a mostre temporanee. In essa erano presenti vari quadri a tema libero, da un ritratto di Brian Clough ad una rappresentazione delle capriole di Obafemi Martins in maglia Newcastle. Su tutti, però, regnava quello che segue tali parole.

Era un’opera in grado di rappresentare alla perfezione lo stato d’animo del tifoso medio del Blackpool: rassegnato tra la volontà di vedere una via d’uscita in una situazione che, da anni, sembrava non voler essere donata dalla famiglia Oyston. Alla fine ci sono riusciti, in qualche modo la giustizia ha fatto il suo corso, quindi questa prematura retrocessione in League One sembra quasi una beffa. Ovviamente il campo ha detto la sua ed il miracolo non ha voluto presenziare per due stagioni consecutive: un’ottima prima stagione l’anno scorso, chiusa ventitré punti sopra la zona retrocessione, ed una seconda chiusa con la retrocessione già qualche giornata prima della chiusura della rassegna.

Lo scorso Febbraio avrei avuto la possibilità di partecipare alla partita giocata contro lo Stoke City, essendo in zona ed avendo visto dei prezzi più che ragionevoli. Una partita al limite dell’inguardabile, motivo che mi ha fatto desistere dall’entrare al Bloomfield Road, però con il senno del poi quasi rimpiango quella scelta. Non perché potrebbe essere qualcosa di difficile ripetizione, credo che la squadra in questione in breve tempo tornerà in pianta stabile nella serie cadetta, ma per un semplice e futile motivo: sostenere quei colori, per cui comunque non tifo, in un periodo così travagliato. No, mi sono limitato a girare per un tempo non definito la struttura e cercare di trovare una maglia da trasferta in un shop ufficiale veramente poco fornito.

Memorie inglesi europee dal lontano 2002

Se risiedi nella penisola italiana, nel corso delle ultime quarantotto ore avrai quasi sicuramente sentito parlare del derby di Milano che verrà disputato in semifinale di Champions League. Non l’avevi notato? Ti consiglio una visita da un otorino o da un audiologo. O forse, ancora peggio, controlla bene se la via riportata nella tua carta d’identità denota un indirizzo italiano. Il clima è poco respirabile, c’è già tanta tensione e qualsiasi persona che trovi per strada, comprese anziane con borse della frutta tra le mani, è in grado di offrirti una propria visione: “Due squadre che non meritano di essere in quel posto”; “E’ tornato il calcio italiano”; “Se ci fosse ancora Baresi sarebbe tutta un’altra storia”; “Non seguo il calcio ma dico che …”; ecc. Niente di diverso dal solito momento storico in cui tutti dicono e possono dire qualsiasi cosa.

Da settimane, da quando ci sono stati i sorteggi dei quarti di finale, uno dei temi ricorrenti è stato il seguente: “Se dovesse succedere, se dovesse, le due squadre di Milano si ritroverebbero in semifinale dopo ben vent’anni”. Ecco, è successo, la gente è in delirio. In questo blog, come sempre, ci interessa fino ad un determinato punto del calcio della penisola. Prendendo spunto da questo collegamento a due decenni passati, proviamo un attimo a capire com’erano prese, a livello prettamente europeo, le squadre inglesi in quella stagione 2002/03.

Champions League

Prima ancora della fase a gironi, ben due squadre inglesi dovettero partecipare al terzo turno preliminare: Newcastle United e Manchester United, rispettivamente quarta e terza nella stagione 01/02 di Premier League. Un altro mondo rispetto al giorno d’oggi, dove tutte e quattro le prime formazioni approdano direttamente alla fase a gironi. I Magpies erano allenati da Bobby Robson ed era l’anno in cui comprarono Hugo Viana e Jonathan Woodgate, mentre per i Red Devils di Alex Ferguson era l’anno dell’arrivo di Rio Ferdinand. Teniamo conto che sia Woodgate che Ferdinand arrivavano dal Leeds United, giusto per dovere di cronaca. Un Leeds che troveremo più avanti in questo pezzo. A fine anno quelli di Manchester tornarono a vincere la Premier League, pur uscendo agli ottavi di finale contro il Real Madrid nelle famose sfide in cui Ronaldo segnò tre reti all’Old Trafford, mentre quelli del profondo nord migliorarono e tornarono di nuovo in Champions piazzandosi terzi. Tornando a legare i lacci delle scarpe, nella fase a gironi entrarono pure Arsenal e Liverpool. I Gunners, campioni in carica del campionato inglese e l’embrione di quelli che sarebbero diventati gli invincibles nel giro di un paio d’anni, passarono per primi il girone a pari merito con il Borussia Dortmund. I Reds saltarono, si piazzarono alle spalle di Valencia e Basilea, pur avendo in rosa il pallone d’oro Michael Owen.

L’undici iniziale dei Magpies a San Siro, contro l’Inter, l’11 Marzo 2003 (fonte: theathletic)

Il Newcastle passò come secondo dietro la Juventus, vincendo lo scontro con l’italiano al St James Park con rete di Andrew Griffin, mentre il Manchester United dominò il suo girone con un Juan Sebastian Veron da tre reti nella fase a gironi. A differenza del formato moderno, dopo la prima fase a gironi se ne presentava una seconda con le migliori due di ogni girone: il Newcastle arrivò terzo nel girone con Inter e Barcellona, quindi uscì; anche l’Arsenal arrivò terzo in un girone combattuto dove la spuntarono Ajax e Valencia, con i Gunners che persero una sola partita contro il Valencia ma pareggiandone quattro su sei; il Manchester United dominò il proprio girone dove c’era pure la Juventus, perdendo la sola ed ultima insignificante partita contro il Deportivo La Coruna. Come si può intuire avanzarono solamente i diavoli di Manchester che, per loro sfortuna, trovarono quei galacticos di cui abbiamo già parlato. Quel Real Madrid arrivò ad un passo dalla finale contro il Milan.

L’undici titolare dell’andata contro il Real Madrid: Barthez; Silvestre, Ferdinand, Brown, Gary Neville; Giggs, Butt, Keane, Scholes, Beckham; Van Nistelrooy

L‘undici titolare nella gara di ritorno all’Old Trafford: Barthez; O’Shea, Ferdinand, Silvestre, Brown; Giggs, Veron, Keane, Butt, Solskjaer; Van Nistelrooy

Coppa Uefa

Sembra di trattare dei temi vecchi quanto la placenta della tua nascita, poiché sono già quasi quindici anni che tale competizione viene chiamata Europa League. Il tempo passa e denota quanto stai diventando vecchio, pur se pensi di essere ancora uno scolaro con lo zaino in spalla. In tale competizione si potevano qualificare anche i cani, vista la vastità di squadre presenti: la fase finale partiva dal terzo turno, con trentadue squadre presenti, ma prima di questa fase c’era la prima e la seconda dove potevi trovare, forse, anche la squadra del tuo quartiere. Al primo turno si qualificarono Leeds United e Chelsea per la posizione in classifica in Premier League, quinta e sesta, mentre la questione fu diversa per altre due partecipanti: il Blackburn (arrivato solo decimo nella EPL 2001/02) grazie alla vittoria della coppa nazionale, ai danni del Tottenham di Graham Poll e con Teddy Sheringham capitano; l’Ipswich Town tramite la classifica UEFA del fair play pur avendo un posto nella serie cadetta inglese, poiché retrocesso dalla Premier insieme al Leicester City e Derby County.

Matt Holland, il capitano di quell’Ipswich Town (fonte foto: itfc.co.uk)

La formazione che gioca le proprie partite casalinghe al Portmand Road fu l’unica a disputare il preliminare/la partita di qualificazione al primo turno: con i serbi del Sartid la spuntarono con un aggregate di 2-1, grazie ad una rete di un giovane Darren Bent in terra straniera. Sorprendente l’eliminazione del Chelsea al primo turno per mano di una squadra norvegese, contando una rosa composta da gente del calibro (anche se non nei picchi di carriera) di Desailly, Petit, Zola o Stanic. Furono le uniche formazioni ad abbandonare la competizione così presto, contando che vinsero tutte le altre compreso il Fulham. No, aspetta, come il Fulham? Grazie ad un ottimo cammino in Intertoto, una coppa che si giocava nel periodo estivo e che offriva tre posti per la Coppa UEFA, Van Der Sar (andato via dalla Juventus nel 2001) & Co. si unirono alla ciurma. Quindi, tirando i conti, al secondo turno approdarono: Fulham, Leeds United, Blackburn ed Ipswich Town. Le prime due passarono agilmente, mentre le altre due uscirono in modalità differenti: i primi presi a ceffoni da quel Celtic che andrà a giocare la finale, perdendola 2-3 ai supplementari, contro il Porto di Mourinho; i secondi riuscirono quasi a fare un secondo miracolo, cedendo allo Slovan Liberec solo ai rigori. Nella fase finale entrò anche il Liverpool, sceso dal piano alto dopo l’eliminazione ai gironi: riuscirono ad arrivare fino ai quarti di finale, battendo rispettivamente il Vitesse e l’Auxerre con tre reti su cinque di Michael Owen. Le altre saltarono subito: il Leeds United contro il Malaga, perdendo 2-1 in terra spagnola dopo averla pareggiata con Erik Bakke; lo stesso risultato anche per il Fulham contro l’Hertha Berlino, dove non bastò una rete di Steve Marlet in terra tedesca.

Della Coppa Intertoto evito, è già troppo lungo questo inutile articolo.

La desolazione del Gigg Lane

Manchester, pur essendo la città inglese con il secondo maggiore volume, è un luogo dove risulta difficile perdersi. Con i suoi 550.000 residenti la si può paragonare a Genova, solo in quanto a numero di presenti poiché la superficie è meno della metà: 115 km quadrati contro i 240 della città che offre alloggio a Sampdoria e Genoa. Come si può capire non è un luogo in cui bruci giorni di viaggio, ti puoi perdere in qualche via ma giusto qualche minuto e ritorni in un luogo familiare. Vista questa sua compattezza, è anche piacevole prendere le varie linee del tram e proseguire verso i fine linea. Una di queste porta a Bury, sorvegliata da 78.000 anime che risiedono a poco più di 18 km dalla centrale zona piccadillyana.

La zona è anche carina in quanto tale ma mette tristezza per via della squadra che la rappresenta. I Shakers hanno dovuto chiudere baracca e burattini al termine della stagione 2018/19, pur essendo in continuo vortice di speranza. Tante le problematiche, tante le vie prese e sbagliate, la storia è lunga ma si è qua per parlare di altro. Il Gigg Lane dista quindici minuti a piedi dalla stazione, immerso nel quartiere in cui è collocato. Un luogo accogliente, un giro di chiave alla porta di casa e si è al proprio posto da abbonato. Il tempo sembra essersi fermato e, aprendo semplicemente Google Maps, si può notare come dal 2018 al 2023 tutto sia ancora uguale ma usurato dal tempo e dalla poca cura. Una Land Rover parcheggiata stava a significare che qualcuno c’era dentro, anche perché la società e lo stadio dovrebbero essere diventati di proprietà di qualcuno che veramente ci tiene a far ripartire il tutto: i tifosi.

Un giovedì qualsiasi di metà Febbraio in quel di Bury

Un uomo probabilmente in pensione, all’interno del perimetro della proprietà, era intendo a verniciare l’autovettura. Anche questa è l’Inghilterra, dove la normalità diventa assurdità e l’assurdità si trasforma in normalità. Dove l’assurdità di lasciare uno stadio in completo abbandono per quattro anni diventa la normalità, mentre cercare di fare un progetto per creare qualcosa di socialmente utile diventa l’assurdità. La verità è che il legame che il popolo inglese ha con la squadra della propria città è marcato, è un senso di appartenza come alla famiglia. Quindi, come quando la moglie è in uno stato senile e la si accudisce con cura, così i tifosi restano vicino al letto cercando di riportare in vita l’amato Bury.

L’unico pareggio del traghettatore Eddie Howe

Difficile prendere altri impegni quando c’è il ritorno di Eddie Howe a Bournemouth. Ma come, non si erano incontrati pure l’anno scorso? Siamo stati abituati bene con le cherries: cinque anni consecutivi al piano alto del calcio inglese, dopo una vita passata nei meandri. Una delle più belle favole dell’ultimo decennio, grazie anche al tecnico della porta accanto che aveva legato la sua vita ai colori rosso-neri del sud britannico. No, comunque non si erano incontrati nella passata stagione perché il B’mouth era tornato in Championship nel 2020, anno in cui l’allenatore in questione decise di tagliare il cordone dopo quasi tre decenni. Con coraggio, sicuro delle basi stese a terra. A corrente alternata visitò anche altri luoghi per brevi periodi, ma fin dalle giovanili negli anni’80/inizio anni ’90 risiedeva al Dean Court.

Il suo Newcastle è divertente da vedere, proprio come il suo primo Bournemouth arrivato in EPL. Allenatore in grado di evolversi di continuo, pur mantenendo basi solide: va bene attaccare, offre sempre del gioco propositivo, ma ciò non sta a significare che la difesa deve avere buchi di un certo spessore. Famose le sue scalate difensive, arrivando ad averne cinque dietro tra cui un centrocampista come il Wilshere della situazione, con i Magpies il materiale è di un altro livello e si vedono i risultati: di gran lunga la migliore difesa del campionato. Si può dire: “Va bene, squadra noiosa e difensiva”. No, per nulla: hanno una fluidità di manovra, anche se non costante, che offre quella sensazione di tranquillità, pace e sicurezza. Poi le perdono alcune partite, niente da dire, però è quella sensazione difficile da spiegare. Si percepisce, non si può non notarla.

Bagaglio personale, fotografo abbastanza svogliato

E qua cade il ricordo, veloce e furtivo: era la stessa sensazione che si percepiva nel 2015, l’anno in cui il Bournemouth arrivò in EPL dopo essersi preso la Championship senza perdere da fine Febbraio ad inizio Maggio. Una cavalcata partita con il pareggio casalingo contro il Blackburn, dove era presente chi sta scrivendo questo pezzo. In porta Boruc, a guidare l’attacco degli ospiti Gestede, nel seggiolino alla destra un signore di mezza età che raccontava aneddoti di quando scese a Milano per vedere David Beckham. A differenza di alcuni studenti universitari italiani, presenti allo stadio più per sbaglio che per altro, quelle Cherries erano sulla bocca di tutti e meritavano di essere viste dal vivo. Un piacevole ricordo di quella giornata, che con il senno di poi fa sorridere e non poco, è il fatto che fu l’unica partita dell’anno giocata dal Bournemouth finita 0-0. Destino, un ricordo che doveva rimanere.

Figurati Graham, quel posto è tutto tuo

La pancia, la voglia di dare voce ai pensieri, mi sta costringendo a scrivere due righe su Graham Potter. Non vorrei, perché alla fine dei conti potrebbe sembrare l’ennesimo capo d’imputazione contro il tecnico in questione, ma la necessità di buttarsi nella mischia vedo che sta prendendo il sopravvento. No, non sarà un pezzo che dirà: “Bluff, sopravvalutato, era meglio se stava dov’era“.

Il pensiero risulta il seguente, banale: che abbia fatto un passo troppo lungo? Non è per andare nel ridicolo, uniformarsi al pensiero comune e spontaneo senza analisi, ma viene proprio da rispondere con un perentorio sì. Ora, dopo quanto successo nelle ultime settimane, quello che una volta era un sì si è trasformato in un Sì con l’iniziale maiuscola. Ma non deve essere una sua colpa, la trasformazione da s a S, perché se vieni circondato da un qualcosa di più grande di quello che era già grande quando hai accettato l’incarico diventa una bella gatta da pelare. Però andiamo a punti: una carriera da terzino sinistro, con picchi ad inizio carriera allo Stoke e al WBA; questo viene dal nulla come allenatore, sette anni in Svezia e grandissima capacità di diventare un guru dei miracoli in un campionato seguito, forse, dagli scout più sottopagati del globo terrestre; fa il salto in Championship, perché comunque fu un salto e non di poco conto, ma allo Swansea non fa niente di eclatante per la squadra; approda al Brighton e nel corso degli anni innalza il suo stato, tanto da convincere il Chelsea a pagare quelli del sud per liberarlo con un anno d’anticipo.

L’amico Graham spera che la società abbia comprato pure una bacchetta magica

Il tizio è calmo, pacato, perfetto per un ruolo da capo allenatore della nazionale. Il fatto è che se da qualche anno sei abituato a guidare un Range Rover, quello che potrebbe essere un Brighton, non è poi così facile passare a guidare un’Aston Martin, quello che era il Chelsea fino a qualche giorno fa. Ora, stando ai recenti acquisti e alle necessità della nuova proprietà, la cosa si fa ancora pià complicata perché sembra debba guidare quella che diventerà, così sperano, la migliore macchina sportiva dei prossimi anni. Personalità fumose ed altezzose, cifre faraoniche, un amalgama di squadra difficile da trovare in queste realtà così giganti e via dicendo. Per non farsi mancare nulla, nella prima contro il Fulham e dopo il cataclisma di mercato, sembra aver messo in campo un mix di costrizione e confusione: il visto per Fernandez nel pomeriggio e subito a guidare il centrocampo; un fumoso Mudryk sulla sinistra, cambiato dopo un tempo; Ziyech e Gallagher titolari dopo essere stati sulla bocca di tutti, con il primo già del PSG ma saltato per un presunto errore dei Blues.

Come per tutte le cose ci vuole tempo, non dovrebbe essere un problema se non stessimo parlando di un mondo che vuole tutto e subito. I contratti stilati dai giocatori parlano chiaro: progetto a lungo termine. Che poi ci siano altre motivazioni, come il dilatamento dei pagamenti alle società e via dicendo, facciamo finta che non ci siano e ragioniamo con il cuore limpido. Ecco, in questa zuppa di casino il profilo dell’allenatore inglese potrebbe uscirne rinforzato, e qua ci starebbe un grande pellegrinaggio a Medjugorje, oppure così levigato da finire in un manicomio.

Errati ricordi riguardanti Schneiderlin

Durante la sessione di mercato, il sito del “The Guardian” diventa una fonte d’informazione affidabile, semplice e gradevole alla vista. Nella sezione riguardante questo amato sport, sempre piena di interessanti articoli a differenza di altre testate giornalistiche, compare la finestra riguardante le trattative in essere, tanto maschili quanto femminili: il soggetto passa da una squadra ad un’altra, la soluzione di vendita e due righe di contorno. Un must, una roccia su cui appendersi quando si ha poco tempo a disposizione.

Alle volte, ed ora siamo in una di quelle situazioni, compaiono nomi che si presumevano estinti. Sfogliando, facendo scorrere il pollice su di un soffice schermo, si è presentato un trasferimento riguardante un giocatore che è passato dal massimo campionato francese a quello australiano: Morgan Schneiderlin. C’è stata molto sorpresa nel leggere il seguente cognome, del tipo che il tempo si è fermato per qualche istante. Gioca ancora? La carta canta, è proprio così. E’ uno di quei giocatori che non si seguono e, in un’epoca moderna in cui tutto passa alla velocità della luce, sembra appartenere ad un passato così distante e difficile da ricordare. Queste righe le si stanno scrivendo aspettando una coincidenza, senza alcun tipo di ricerca e voglia di farla questa dannata ricerca. Si ha voglia di aggrapparsi ai soli ricordi, per capire dove ci porterà tutto ciò e se in modalità fruttifere o meno.

Quanti anni avrà l’ex Everton e Manchester United? Indossava il numero 4 nella prima delle due, mentre nella seconda ricordo che lo cambiò, probabilmente perché lo indossava qualcun’altro. La fresca notizia ha fatto breccia perché era un inamovibile tassello nel fantasypremier, garanzia di classe, punti e produzione materiale. Sembra passata una vita da quando lo si sceglieva in quei passatempi, quindi da una parte è matematicamente impossibile che sia veritiero un altro ricordo che si è presentato: approdò all’Old Trafford dopo aver spento trenta candeline. E’ impossibile, perché se ipotizziamo che ora ha 35 anni, vorrebbe dire che il trasferimento avvenne verso il 2018/19. No, il francese è presente in un ricordo più datato. A meno che non sia per i 35 ma per i 40, anche se mi sembra troppo esagerato. Niente, devo fare un passo indietro, rimangiarmi quanto detto e fare una ricerca.

(ricerca effettuata)

Morgan Schneiderlin ai tempi delle due stagioni in League One (fonte:talksport)

Dannazione, la memoria gioca brutti scherzi. All’Everton ci andò dopo aver indossato la maglia dei red devils, perché in Inghilterra ci approdò nel 2008 e portato dal Southampton. Pur avendo letto questa verità, fatico a ricordarmelo con la maglia dei Saints. Eppure, dopo la famosa ricerca, il 4 lo indossava nel sud dell’Inghilterra e lo ricordavo bene con quel numero, però con colori completamente differenti. La cosa destabilizza, fa dubitare della memoria che un qualsiasi umano possiede. Al Manchester United ci andò nell’estate del 2015, quindi più di sette anni fa. Al Goodison Park nel Gennaio del 2017, dopo essere stato messo in disparte dall’arrivo di Jose Mourinho. Ai Saints ci approdò quando erano in Championship, incappando subito in una retrocessione e due stagioni giocate in League One. Nel massimo campionato inglese ci arrivò solo nel 2012 e, giusto per chiudere il cerchio, è un classe 1989. Ciò vuol dire che ha da poco compiuto 33 anni e la memoria che possiede chi ha scritto questo pezzo fa schifo al *****.

Con la speranza di non perdere il ragazzo di Dereham

Bisognerebbe sempre essere tristi quando determinati giocatori subiscono delle brusche frenate, cambi di direzione o inaspettati approdi in lande estere. Specialmente se sono giovani, se hanno dimostrato di valere qualcosa e, cosa ancora più importante, vengono scaricati dalla squadra per cui tifano. Perché questo è il caso di Todd Cantwell, classe 1998 che è passato a titolo definitivo dal Norwich ai Rangers. Non si parla del QPR, bensì della storica squadra scozzese. Come si può intuire, nonostante il blasone storico, un passo indietro per il giovane biondo dal talento apparentemente smisurato.

Todd Cantwell in una delle sue vergognese esultanze (fonte: social Norwich)

Il giocatore in questione è cresciuto a Dereham, a sole 23,8 miglia da Carrow Road. Che tifasse o meno i canarini poco importa, non vogliamo indagare, perché il legame con i giallo-verdi era pur sempre importante vista la vicinanza tra il tappeto di casa ed il manto erboso. Ragazzo problematico nelle ultime stagioni, forse non contento della piega che stava prendendo la sua carriera: dopo aver dimostrato di essere valido anche al piano alto, uno dei giovani più intriganti della nazione, potrebbe aver captato una non fermezza nel suo ruolo di pilastro presente e futuro. Certo, c’è da dire che il Norwich degli ultimi anni è stato un vero e proprio ascensore: salito e sceso dalla EPL per due volte consecutive. Ecco, forse i disguidi sono sorti da questa instabilità societaria, di progetto concreto, di terra di mezzo tra una e l’altra categoria? Arriveranno conferme in futuro su queste supposizioni? Non lo sappiamo, sta di fatto che ufficialmente il ragazzo di Dereham era pervaso da egoismo, altezzosità, svogliatezza e manie di protagonismo. Un cambio di atteggiamento che ha colpito prima Daniel Franke, aveva creduto in lui, e poi il nuovo arrivato Dean Smith. Quest’ultimo, dopo un tentativo, nel giro di poco meno di due mesi ha accettato che venisse spedito in prestito al Bournemouth, categoria inferiore. Le cherries conquistano la promozione, hanno la possibilità di portarsi a casa il giovane pagando 10M£ ma passano. I punti iniziano ad essere troppi, contando che pure Scottie Parker non lo vedeva benissimo per via dell’atteggiamento, e quindi si inizia a pensare che la parte del torto sia effettivamente quella in cui è ben piazzata Todd Cantwell.

Torniamo un attimo al vero centro di questo breve pezzo: la tristezza nel vedere giovani di così tanto talento perdersi per strada. All’apparenza per cialtronate, risucchiati da un esibizionismo smisurato e forse nemmeno voluto. Non ricordiamo la sua contestata foto dopo la prima retrocessione del Norwich, parliamo di come in quella stagione aveva fatto sgranare certi occhi. Cafone nelle esultanze, con bandierine rotte e la solita voglia apparire di questi giovani, ma quanto bella fu la rete del 2-1 contro l’Arsenal? Ricezione appena dentro l’area, controlla subito sul piede forte, aggiusta la postura e la piazza sul secondo palo con assoluta morbidezza. Non una scheggia ma un giocatore leggiadro, gradevole alla vista.

Con la speranza di vederlo crescere all’interno dell’Ibrox Stadium, perché il cammino suo e quello dei Rangers devono seguire lo stesso percorso. Un percorso di rinascita, se così possiamo chiamarla.

La via senza nome di questo Everton

Proviamo a riportare in vita questo blog, senza alcun tipo di velleità e con totale libertà di scrittura. Nessun paletto, nessun ripensamento, nessun lavoro di limatura ed altro: quello che si pensa, si scrive. Quindi, visto che la mente deve diventare la penna stessa, in giornata si è incappati nel licenziamento di Frank Lampard da parte dell’Everton. Sorprendente? Tantissimo, forse quanto un post fotografico di qualche influencer con una fetta di pizza in mano e la pizza stessa sul tavolo completamente intatta.

La carriera d’allenatore della leggenda dei blues fa tenerezza: così giovane, così poco avvezzo a prenderne una. Dopo il promettente avvio con il Derby County, bravo a salutarlo prima dell’imminente tracollo viste le folli spese degli anni passati al fine di salire al piano alto, le successive esperienze sono state fallimentari: con il suo Chelsea ha perso due finali per poi essere rimpiazzato da uno che è andato a vincere la Champions League, mentre con l’Everton è stato in grado di mandarlo ufficialmente all’obitorio. Sono rare le carriere iniziate in modalità ancora più precarie, perché di prassi si è soliti tirarli giù dalle spese e dai radar certi elementi. Il peso del personaggio è importante, la storia parla per lui, ma allo stesso tempo non affiderei dei bambini a Tiberio.

Foto d’archivio, fatta con un’innata incapacità nell’utilizzare una reflex

La verità è che queste righe sono state scritte per parlare di altro: il tracollo dell’Everton. Non si parla di classifica, si parla proprio di società. La fenice può rinascere dalle proprie ceneri, però le toffees hanno mai avuto le sembianze di una fenice? Da quando ha memoria chi sta scrivendo in questo blog, il migliore piazzamento della squadra di Liverpool è un quarto posto nel lontano 2005: a sedici punti dal terzo, il Manchester United, e a meno trentaquattro dai campioni del Chelsea, guidati da un giovane Mourinho. Ciò che si vuole far capire è che, sempre chi sta scrivendo, non ha mai visto un Everton glorioso o sicuro dei propri mezzi. Era l’8 Agosto 2015 quando si era seduti al Goodison Park per assistere alla prima stagionale contro il Watford: Lukaku da una parte, Ighalo dall’altra. Gli anni passano, sembrano passati lustri. Si ricorda l’eccitamento nei confronti di quel giocatore belga, una quasi ossessione che se una squadra fosse blasonata non dovrebbe presentarsi in dosi così massicce. Quindi, una volta ufficializzata la realizzazione di uno nuovo stadio qualche anno dopo, potete solamente immaginare qual’è stata la reazione dei tifosi.

Lo stadio verrà costruito vicino al fiume Mersey e sarà una gioia per gli occhi, nonostante il lungo travaglio effettuato per realizzarlo. Sarà uno dei tanti stadi moderni dove uno assomiglia all’altro, viviamo in questa dannata epoca, ma lo stupro nei confronti della città portuale verrà dimenticato in poco tempo. Certo, fa sorridere che dopo l’annuncio del progetto, quindi nel 2017, la squadra è andata sempre peggio in quanto a stabilità: da Koeman ad Allardyce nel 2017, quindi da uno sguardo straniero ad uno degli allenatori più stereotipati in circolazione; da Allardyce ad un giovane Silva, con ottica futura, ma mandato via dopo diciotto mesi; da un Silva ad un esperto Ancelotti, apparentemente in una fase calante dopo l’avventura a Napoli, quindi un cambio totale di filosofia dal giovane al vecchio; un Ancelotti che saluta per lidi più importanti ed un Benitez che arriva, leggenda della parte rossa della città; dal disastroso spagnolo all’ancora più disastroso Lampard. Una costante discesa verso gli inferi, senza un’apparente visione futura, dove il prossimo potrebbe avere a che fare direttamente con Lucifero.

Un filo comune, venti km a sud di Birmingham

Era il 6 Febbraio del 2003 quando Jimmy Davis, prospetto del Manchester United e classe 1982, perse la vita nella M40 in località Oxfordshire. La sua macchina, che andava ad una stimata velocità di quasi 200 km/h, impattò contro il lato posteriore di un camion. L’orologio segnava le quattro e qualcosa di mattina, il viaggio era quello di 187 km che lo stava portando dalla sua Redditch a Watford. Stava raggiungendo il Vicarage Road, dove era stato mandato in prestito, per disputare la prima partita ufficiale con quella maglia. Il tasso alcolemico era il doppio della soglia consentita e, quanto fatto la sera prima, andava contro tutti i più sani valori mentali di una persona: da Watford era tornato a Redditch, si era sfondato in un nightclub con un amico d’infanzia, era tornato a casa alle 2:30 ed aveva preso la macchina in direzione Watford.

Al termine della stagione 2003/2004, dopo aver vinto la FA Cup, i Red Devils forniscono il giusto tributo al giovane morto (fonte: theguardian.co.uk)

Nel 2022 avrebbe compiuto 40 anni e, se fosse ancora in vita, magari starebbe giocando con il Redditch United. Quest’ultimo milita nella divisione centrale della Souther Football League, quindi siamo al settimo livello della piramide, e galleggia poco sopra la zona salvezza. In un campionato dominato dal Banbury United, con sole due sconfitte in ventinove partite e sedici punti di vantaggio sulla seconda, la squadra della città di Jimmy Davis ha in Daniel Sweeney il top scorer. Con 11 reti siglate, delle 26 di squadra, il ragazzo è un classe 1998 di 190 cm e che non sembra avere il miglior fisico possibile per uno sportivo. In verità sono presenti delle foto in cui risulta asciutto ed altre in cui la massa grassa sembra prevalere. Oscilla, dominando ugualmente.

Regolare o overweight? In questo frame la seconda che hai detto (fonte: southernfootballleague.co.uk)

Classe 1998, in sei anni ha cambiato squadre per ben ventuno volte. Non avete letto male: ventuno. Ovviamente ho compreso di tutto, tra rientri da prestiti ed altro. Ora, giusto per chiudere questo articolo, in cui ho voluto fare un gancio senza senso tra Davis e la sua città d’origine, voglio partorire una mappa geografica dei vari spostamenti di Sweeney dal 2015 ad oggi. A voi la gemma e, come potete vedere, per un istante gli è saltato l’embolo e ha accettato un trasferimento fuori dalla comfort zone.